Primo step per l’alta qualità

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Gli allevamenti di bovini da latte sono il luogo fisico dove nascono parecchi prodotti destinati al made in Italy. L’esempio del Grana Padano.
La ricetta è semplice: trinciato di mais come prodotto di base, farine e concentrati per dare energia, fieno per bilanciare, ed eventuale aggiunta di vitamine, sali minerali e lieviti. Il tutto per dare luogo a una produzione media di latte di circa 31 litri per vacca che, moltiplicata per 320 capi in lattazione (60 sono in asciutta), fa un discreto numero di litri. Tutto rigorosamente conferito alla latteria PLAC – ossia uno dei punti di riferimento per i produttori di questa zona – la quale, avviato il processo di caseificazione, dovrà impiegare la bellezza di 10 quintali di latte per dar vita a forme di Grana Padano da circa 39 chilogrammi ciascuna. Ma non è tutto. Oltre a un allevamento di quelli come si deve, a momenti – stimano per Pasqua – dovrebbe pure partire l’impianto di biogas da 1 MW.
Questa è, in sintesi, la situazione della Società Agricola Seghizzi, ma potrebbe essere quella di tante altre aziende che fanno parte della filiera lattiero-casearia di alta qualità, e che hanno sede in quella che ci piace definire la “vallata del latte”. Siamo infatti in provincia di Cremona, nella patria del Grana Padano che, oltre ad essere tra i formaggi di fama internazionale, ha anche un’altra peculiarità: nella sua produzione, non si butta via niente. Tanto che suona quasi assurdo pensare che qui il prodotto di scarto è il burro. Stiamo quindi parlando di prodotti unici e dall’indubbia qualità: ma come se la passano gli allevamenti e i loro conduttori? Quello del latte, è un mercato che tira? Vediamo.
Il mercato del latte
I temi caldi di questa filiera sono gli stessi da anni, a cominciare dal tormentone “quote latte”.
Le quote latte – come sottolinea il prof. Renato Pieri, docente di Politica ed Economia Agraria dell’Alta Scuola di Economia Agroalimentare di Cremona – hanno letteralmente svuotato le tasche degli italiani, visto che fino ad oggi sono stati spesi 4 milioni di euro. Ma sempre a proposito delle quote latte, il prof. Pieri dà anche un paio di buone notizie: da due anni non paghiamo più le multe e nel frattempo abbiamo incrementato la nostra quota del 7 per cento. Di più: si registra un continuo aumento del flusso di esportazione dei nostri prodotti lattiero-caseari, soprattutto per quanto riguarda Grana Padano e Parmigiano Reggiano (il 30 per cento delle forme prodotte sono destinate all’estero).
Dal 2000 ad oggi, infatti, l’export è aumentato dell’8 per cento, mentre in Italia il mercato è leggermente stagnante. Per quanto riguarda, invece, la produzione e il consumo mondiale di latte bovino e bufalino, se si confrontano i dati del 2006 con quelli del 2011, si nota come, a livello globale, siano aumentati. E poi una chicca che forse non tutti sanno: l’Asia è il maggior produttore e il maggior consumatore di latte. Ci sono poi i primi risultati del cosiddetto “atterraggio morbido”, ossia del meccanismo che porterà alla morte delle quote: un aumento del 2 per cento della possibilità di produrre. Per quanto riguarda il numero di allevamenti e la produzione commercializzata di latte vaccino in Italia, se si prende il considerazione il periodo compreso tra 1995 e il 2011, si nota un forte aumento intorno al 2000. Oggi, per quanto riguarda il numero di allevamenti, siano nell’ordine delle 40mila stalle, quindi un numero nettamente inferiore a quanto si registrava nel 1995 (circa 100mila). Ma questo dato – fa notare il prof. Daniele Rama dell’Alta Scuola di Economia Agraria di Cremona – deve essere correttamente interpretato, poiché nella maggior parte dei casi questa contrazione è dovuta alla concentrazione degli allevamenti e non alla loro chiusura. Infatti, il 16 per cento delle stalle italiane produce il 60 per cento della produzione nazionale, anche se in Italia resta comunque la peculiarità degli allevamenti piccoli: il 70 per cento ha un numero di capi inferiori a 30. Ne consegue, pertanto, che il numero di stalle di grosse dimensioni è assai ridotto.
E c’è un altro colpo di scena: le aziende di montagna hanno una maggiore capacità di sopravvivenza rispetto a quelle di pianura. Anche in questo caso, chiaramente, il dato non può essere preso così com’è, ma merita una valutazione oggettiva. Gli allevamenti di montagna, infatti, non hanno a che fare con le quote latte, sono destinati a produzioni di qualità e poi, va detto, spesso per gli agricoltori di queste zone non vi sono altre alternative produttive. Tornando alle produzioni, l’Alta Scuola di Economia Agraria ha monitorato un altro dato senz’altro interessante: sono solo quattro le Regioni italiane che possiamo definire decisamente produttive. Infatti, Lombardia (in testa), Piemonte, Emilia Romagna e Veneto contribuiscono per ben il 70 per cento alla produzione di latte complessiva. Parliamo ora di costi, di valore e di prezzo del latte. Le notizie, come è facile immaginare, non sono troppo confortanti. È infatti solo il 35 per cento del totale delle aziende a riuscire a fare utile producendo latte. Le altre – e cioè il restante 65 per cento – resta sul mercato perché il conduttore decide di sottopagare il suo lavoro. E questo, come è facilmente immaginabile, incide profondamente sul ricambio generazionale. Infine, una riflessione circa i mercati di sbocco del latte italiano. Il 70 per cento del latte prodotto viene utilizzato per produrre formaggio. Di questo 70 per cento, il 40 per cento viene destinato alla produzione di formaggi DOP tra cui, ai primi posti, spiccano proprio il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano. Infatti, fatto cento il 40 per cento di cui si è appena detto, il 40 per cento viene usato proprio per produrre questi formaggi.
Estratto dall’articolo di Emanuela Stifano pubblicato su Imprese Agricole Marzo 2012, per leggere il testo integrale clicca qui.