I custodi dei grani antichi

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La sua storia di successo, fatta di passione per la propria terra e una scommessa sulle farine di qualità, ottenute tramite molitura a pietra e utilizzo di antiche varietà di grano, è finita addirittura sul New York Times. Eppure, per la legislazione italiana, non avrebbe potuto farlo. Ha del paradossale la vicenda di Filippo Drago e della sua azienda Molini del Ponte, che a Castelvetrano (TP) è giunta alla terza generazione della propria attività e oggi produce cinquemila quintali l’anno con dieci addetti tra interni ed esterni. Drago, protagonista della riscoperta della Tumminia, un grano duro integrale tipico della Sicilia, spiega: “Siamo fuorilegge perché una legge degli anni Settanta ha di fatto cancellato i grani antichi, circa cinquanta varietà che l’agronomo Ugo de Cillis ha invece custodito in un museo ad hoc creato negli anni Trenta a Caltagirone. I nostri grani ancora oggi non fanno parte del Registro Ue ma possiamo lavorare grazie a un Registro parallelo della Regione Sicilia per il grano biologico”.

Secondo Drago, il futuro della cerealicoltura è proprio strettamente collegato al rilancio dei grani antichi, soprattutto oggi che il settore è in crisi e il grano “classico” al mulino viene pagato 26 centesimi, l’equivalente di quanto costava in lire trent’anni fa, a fronte di una quotazione per le varietà antiche che raggiunge un valore triplo. Sotto questa spinta, sono sempre di più gli agricoltori che puntano su varietà dimenticate, con conseguente aumento delle aree coltivare ad esse dedicate. Cereali come il Nero d’Abano, molito sempre a Castelvetrano per valorizzare una varietà di grani veneti, in un progetto nato dopo 15 anni di collaborazione con i panificatori di quella regione, o come la granella di segale di Calabria.

I grani moderni come il Creso, secondo Drago, “Hanno disatteso la promessa fatta ai contadini di lavorare di più lavorando meno. E in Italia questa produzione simbolo della Dieta Mediterranea viene via via abbandonata: della superficie agricola a seminativi di 300mila ettari ora solo 190mila sono ancora coltivati. Abbiamo abbandonato le colture di grano in 110mila ettari. Inoltre per i consumatori le varietà antiche offrono il vantaggio di portare meno chimica nel piatto: non hanno bisogno di diserbanti, le spighe sono altre due metri perché non sono state ionizzate come invece lo è stato il Creso”.

Tra i pregi di questa riscoperta, anche la valorizzazione di punti di forza a cui i consumatori sono sempre più sensibili, come il contenuto di glutine molto basso, che in alcuni casi arriva ad essere anche sei volte inferiore a quello dei grani più comuni. È il caso degli autoctoni siciliani, dal russello al maiorca fino al farro lungo, adatti anche a chi soffre di intolleranze alimentari,  che raggiungono valori nutrizionali d’eccezione nelle farine integrali e ancor più se ottenuti tramite molitura a pietra, perché il germe del grano rimane intatto.  Con il successo arrivano, come per le più tipiche produzioni dell’eccellenza agroalimentare italiana, anche i primi tentativi di imitazione, sottoforma di false farine in pietra che arrivano invece da mulini industriali.

Il Molino è anche protagonista di un progetto che spazia dall’agricoltura alla storia. Lo scorso aprile, infatti, è stato seminata a tumminia un’area di circa un ettaro, compresa tra l’Acropoli e Malophoros posta sotto il Tempio “C” all’interno dell’area archeologica di Selinunte. Il primo raccolto, da quindici quintali, segna idealmente una continuità con un’attività un tempo fiorente: nel sito, infatti, sono emerse oltre ottanta fornaci. Gli antichi grani, insomma, riprendono a raccontare una storia da troppo tempo dimenticata.

Articolo di Emiliano Raccagni