Friuli, terra di ulivi…

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Un oliveto sperimentale creato per avere a disposizione un vero e proprio laboratorio a cielo aperto, tramite cui studiare il comportamento dell’Ulivo e mettere a disposizione degli operatori un’occasione di confronto sull’adattabilità delle diverse varietà e la loro resistenza a parassiti e malattie, a seconda di tecniche e modi di coltivazione. Il  tutto, nella zona tra il 45esimo e il 46esimo parallelo, che rappresenta il polo più settentrionale del mondo per questa pianta. Siamo in Friuli e più precisamente a Faedis, in provincia di Udine, dove nei giorni scorsi ha preso il via l’iniziativa voluta dall’Associazione friulana viticoltori, nell’ambito di una strategia volta a promuovere l’olivicoltura nelle aree vocale di questa Regione. Nell’appezzamento, di proprietà di Maria Pittia, sono state poste a dimora, per il momento, 36 varietà di ulivo, numero destinato a crescere in futuro.  La maggioranza sono rappresentative del territorio nazionale, ma non mancano varietà greche e spagnole. Per ognuna di esse è stata piantata una coppia, la prima allevata secondo il criterio del vaso policonico, la seconda con il sistema a ypsilon. Sotto i riflettori dello studio, la diversa capacità di adattamento, produttività, adattabilità al suolo e al clima friulano, ma soprattutto la resistenza agli attacchi di parassiti nocivi come la mosca olearia e la gestione congiunta di più varietà.

L’olivicoltura in Friuli Venezia Giulia -ha sottolineato l’assessore regionale  all’agricoltura Cristiano Shaurli- vive una stagione di grande  espansione e non è più considerabile solo come un complemento ambientale e paesaggistico delle aziende agricole, diventando invece un elemento di solida redditività. La Regione continuerà ad affiancare questo processo e a valorizzare le eccellenze del territorio, unica strada questa da perseguire, lontano dalle massificazioni e dall’azzeramento delle differenze che sarebbero la morte della nostra agricoltura ed economia“.

Il presidente di Afrol Battista Nardini ha ricordato come dalla fine degli anni settanta si registri in Friuli una spontanea rivalutazione dell’olivicoltura, a partire dalla provincia di Trieste, grazie soprattutto all’intraprendenza di alcuni imprenditori che si sono adoperati per l’attivazione di un impianto di molitura e per la valorizzazione della “Bianchera”, varietà locale. Un processo che, dopo una battuta d’arresto dovuta alla gelata del 1985, si è esteso progressivamente sui terreni collinari delle province di Gorizia, Udine e Pordenone, sfruttando i versanti sud, riparati dai venti freddi. Da soli 30 ettari registrati negli anni ottanta, si è oggi passati a una realtà da 400 ettari, che garantiscono una produzione piccola ma dall’elevato livello qualitativo.

Oggi il mondo dell’olio friulano può contare su circa ottocento produttori e un quantitativo annuo pari a diecimila quintali di olive, che rendono una media di 1500 quintali d’olio, circa la metà del quale è confezionato e commercializzato in bottiglie, mentre la restante metà è ancora destinata all’autoconsumo. A supporto di queste attività, anche il progetto “olio d’oliva, simbolo di qualità nell’area transfrontaliera”  realizzato nel 2012 in partenariato  con la Slovenia, grazie al quale, per favorire le attività tecnico scientifiche, sono stati acquistati nuovi macchinari per la frangitura delle olive, l’imbottigliamento dell’olio, il recupero della parte solida e la separazione del nocciolo per le olive da mensa. Da uno studio effettuato nell’ambito del progetto emerge inoltre che in Friuli sono oltre 35mila gli  ettari potenzialmente adatti alla coltivazione dell’olivo: dalla fascia pedemontana che si estende tra Aviano e Caneva ai rilievi collinari dell’anfiteatro morenico del Tagliamento, passando per Tarcento, Gemona, il Collio Goriziano con Buttrio e Rosazza, fino alla fascia pedemontana tra Magnano in Riviera e Cividale e quella litoranea tra Trieste e Muggia, senza dimenticare alcune aree agricole dell’alta piano carsico. La sfida dell’olio più “freddo” del mondo, insomma, è solo agli inizi.

Articolo di Emiliano Raccagni