Agricoltura blu anche nell’oliveto

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Oliveti in Puglia

La sicurezza della produzione alimentare passa necessariamente per pratiche agricole più sostenibili e meno aggressive verso quella risorsa limitata e preziosa che è il suolo. Non per niente ad esso è stato dedicato dalla FAO l’anno che sta per concludersi, con lo scopo di porre nuovamente al centro  dell’attenzione il fondamentale ruolo che un suolo sano e integro nella sua struttura può svolgere per la sicurezza alimentare. Numerosi sono gli studi scientifici e le esperienze sul campo che dimostrano come una sua gestione sostenibile permetta di far dialogare economia ed ecologia, ovvero di rimanere produttivi pur rispettando le risorse, senza grossi investimenti finanziari per l’imprenditore agricolo. Rotazioni delle colture, coperture dei terreni, lavorazione conservativa del suolo sono solo alcune di queste misure che ricevono il consenso della scienza ma trovano ancora poca diffusione nella pratica. Una nuova conferma scientifica della validità delle sopra citate misure arriva da uno studio tutto italiano: condotto dal Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo: Architettura, Ambiente, Patrimoni Culturali (DiCEM) – Università degli Studi della Basilicata, esso ha analizzato le conseguenze di diverse gestioni del suolo per una coltura caratteristica dell’agricoltura italiana e che caratterizza il paesaggio rurale nostrano: l’olivo. Per due anni sono stati paragonati dati riguardanti la struttura del suolo, le sue caratteristiche chimico-fisiche, la resa dei raccolti in oliveti dal 2000 sottoposti a due diverse gestioni:

  • una gestione tradizionale con lavorazioni frequenti del suolo per eliminare la flora spontanea e con regolari potature radicali degli alberi;
  • una gestione meno aggressiva senza lavorazione del suolo, con copertura del suolo con flora spontanea e controllo di questa solo tramite sfalci, lasciati peraltro sul terreno (agricoltura conservativa o agricoltura blu)

I risultati? I terreni trattati in maniera meno aggressiva mostrano una migliore ritenzione dell’acqua piovana, una distribuzione più uniforme nei diversi strati del suolo, anche nei più profondi, soprattutto in autunno-inverno; un maggior contenuto di carbonio nel suolo e una minore erosione, il tutto accompagnato da una resa non inferiore a quella di oliveti coltivati in maniera tradizionale. Al contrario i suoli sottoposti a gestione tradizionale dimostrano segni di degradazione e permeabilizzazione, risultando in una maggiore erosione e dilavamento. I ricercatori sottolineano come proprio per gli effetti migliorativi dell’equilibrio idrico del suolo, tali misure sarebbero auspicabili laddove i problemi di siccità diventano sempre più frequenti, come ad esempio nel Sud Italia dove il 20% dei terreni agricoli – ma in casi estremi si arriva fino al 40% – è già oggi sottoposto a stress idrici. Lo studio citato si trova QUI

Articolo di Maria Luisa Doldi