Reddito agrario o reddito d’impresa?

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Nell’ambito delle attività di vinificazione, quando si può configurare reddito d’impresa, e non agricolo, nel caso in cui si utilizzino uve provenienti da terzi, in misura superiore al 50%? Sul tema ha fornito un’autorevole risposta la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18071 dello scorso 21 luglio. Il Supremo Collegio è stato chiamato a decidere circa una controversia che ha visto fronteggiarsi l’Agenzia delle Entrate e il titolare di un’azienda agricola che produce uva e che provvede alla successiva trasformazione in vino. In particolare, l’Agenzia ha proposto specifico ricorso per la cassazione della sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, sezione staccata di Pescara, in controversia concernente l’avviso di accertamento per IRPEF, IRAP e IVA 2001, con il quale era stato accertato un maggior reddito imponibile sulla considerazione che la ditta verificata non produceva un reddito agrario ex art. 29 del T.U.I.R., ma un reddito di impresa poiché vi era stato il superamento del 50% delle uve acquistate rispetto a quelle prodotte, tutte utilizzate per la vinificazione. La Commissione Tributaria Regionale aveva, infatti, confermato la prima decisione che aveva annullato l’accertamento, osservando che la prevalenza doveva essere considerata in senso economico e non quantitativo, posto che le uve in questione, di provenienza esterna rispetto al terreno, avevano delle caratteristiche qualitative non comparabili cui conseguiva un minor valore economico. Dal punto di vista prettamente giuridico, oggetto del contendere è stata l’interpretazione degli artt. 29, comma 2, lett. c), 51, comma 1, del d.P.R. n. 917/1986 e 2135 cod. civ..

La Cassazione ha accolto il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate. Nella motivazione della sentenza si legge, infatti, che in base all’articolo 29 del Testo Unico sulle Imposte sui Redditi “Il reddito agrario è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati, nei limiti della potenzialità del terreno, nell’esercizio di attività agricole su di esso. Sono considerate attività agricole: (…) c) le attività dirette alla manipolazione, trasformazione e alienazione di prodotti agricoli e zootecnici, ancorché non svolte sul terreno, che rientrino nell’esercizio normale dell’agricoltura secondo la tecnica che lo governa e che abbiano per oggetto prodotti ottenuti per almeno la metà dal terreno e dagli animali allevati su di esso. (..)”. Sulla scorta di tale dettato normativo, la Cassazione ha sottolineato di non condividere la tesi della Commissione Tributaria Regionale, fondata sulla differenza qualitativa delle differenti uve utilizzate per la vinificazione, incidente sul conseguente differente valore economico delle stesse.

La disciplina in materia, infatti, è focalizzata sul fatto che “le attività dirette alla manipolazione, trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli, per quanto qui interessa, “abbiano per oggetto prodotti ottenuti per almeno la metà dal terreno”. Conseguentemente la applicabilità della norma richiede la ricorrenza di due presupposti: a) che i prodotti oggetto di lavorazione abbiano avuto origine proprio dal terreno, rispetto al quale viene determinato il reddito (presupposto qualitativo); b) che i prodotti così individuati costituiscano almeno la metà di quelli lavorati (presupposto quantitativo)”. Secondo la Cassazione, quindi, risulta evidente che “il profilo qualitativo è definito esclusivamente con riferimento alla provenienza dei prodotti, senza che assuma alcun rilievo la qualità e, quindi, il valore economico degli stessi, elementi completamente ignorati dal legislatore; quindi, per quanto riguarda il profilo quantitativo, il riferimento alla “metà” dei prodotti non consente una interpretazione diversa da quella riferibile al calcolo quantitativo, secondo l’unità di misura utilizzata per il prodotto in discussione, stante la assenza di criteri ulteriori e diversi che ricolleghino il concetto di metà, non già alla quantità, ma al valore”.

Di Antonio Longo