2015, il mondo del latte a un bivio

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Aprile 2015. Una data ben impressa nella mente di chi si occupa di agricoltura e in particolare di latte. Tra poco più di un anno, infatti, terminerà il famoso (o famigerato) regime delle “quote”. Legittimo quindi chiedersi cosa accadrà per un settore che in Italia vale circa 15 miliardi di fatturato.

La posizione ufficiale del nostro Paese, che sul sistema delle quote ha visto negli scorsi anni accendersi il dibattito interno in modo davvero forte, è stata espressa solo pochi giorni fa in sede comunitaria, dove si stanno susseguendo gli incontri in vista di una trattativa che si mostra ovviamente difficile, tanti sono gli interessi in gioco.

Italia all’attacco

“L‘Italia ritiene necessario che venga considerata la situazione particolare di quegli Stati membri nei quali la produzione di latte è largamente insufficiente a coprirne il relativo fabbisogno“. Lo ha sostenuto la delegazione italiana al Consiglio dei ministri dell’agricoltura dell’Ue, nel dibattito politico sul futuro del settore tenutosi solo pochi giorni fa Bruxelles. E proprio sulle future sfide, l’Italia ha indicato “Come principale obiettivo, la necessità di acquisire nuovi mercati e continuare nell’azione di miglioramento della qualità delle produzioni”.

Insomma, per l’Italia “non sono del tutto sufficienti” le misure previste dalla Politica agricola europea in vista della fine delle quote latte. La preoccupazione è maggiore soprattutto per gli allevamenti che operano nelle zone marginali, come in montagna, che sostengono costi di produzione più elevati. Per l’Italia, quindi, serve aprire una riflessione sia sulla fase di produzione sia su quella di trasformazione, con le aziende casearie che potrebbero soffrire di problemi nell’approvvigionamento.

Grandi manovre

Ma, regole da riscrivere a parte, come si presenta il settore all’appuntamento e, soprattutto, è proprio così scontato che i rapporti di forza produttivi all’interno dell’Europa (primo settore mondiale per produzione di latte) cambieranno radicalmente? Dalle analisi, innanzitutto, ci si aspetta che per Paesi come Germania, Francia e Irlanda, ma anche per i Paesi Bassi, possano esservi grandi incrementi produttivi. Situazione più stabile per l’Italia, in cui il grosso della produzione è concentrata in un’area tutto sommato circoscritta e già fortemente urbanizzata. In Italia, del resto la produzione di latte è già oggi in continua flessione. Lo confermano i dati del Sian (sistema informativo agricolo nazionale) che nel novembre 2013 hanno registrato una produzione di 6,981 milioni di tonnellate, 120 mila tonnellate in meno rispetto al 2012. Buone notizie se si temono nuove multe, meno buone se si guarda allo stato di salute complessivo del settore.

Doppio binario

Ancora una volta, per l’Italia, si apre uno scenario differente da quello dei meri rapporti di forza basati sulle quantità. Si pensi a come il consumo di latte nei Paesi extracomunitari, oggi più ricchi e desiderosi di “spartirsi” il meglio delle produzione agroalimentare, potrebbe attrarre latte e formaggi tricolori, notoriamente riconosciuti per qualità e sicurezza alimentare. Per fare un esempio significativo basterà ricordare che il sistema latte italiano produce circa 12 milioni di tonnellate di latte fresco che viene impiegato nel 70% dei casi per fare formaggi (50% di formaggi DOP) e che grazie a questo utilizzo gli allevatori italiani hanno ricevuto un compenso maggiore rispetto agli altri paesi europei.

La strada, per molti, non può che essere questa, anche se restano ancora problemi di base da risolvere, che pesano ancora fortemente sul comparto sotto la voce “costi aziendali”. Si pensi alla burocrazia, ai costi energetici e alla stretta creditizia sempre molto pressante.

Come ricorda Assolatte, però, la strada della sola qualità certificata non può quindi essere la sola risposta, dato che la partita si gioca anche in casa, dovendosi difendere dall’espansione delle aziende straniere nel mercato italiano dei prodotti freschi e più economici. L’imperativo è quanto mai favorire un sistema che funzioni tra i produttori “Dop” e chi punta sulla fascia più bassa. Fare sistema, insomma, non può essere più solo una frase fatta, pena la tenuta di una delle maggiori ricchezze del settore primario made in Italy.

 Articolo di Emiliano Raccagni